Orbite perfette

E se la Luna si schiantasse sulla Terra? Se, mettiamo, un folletto maligno disegnato da qualcuno per Youtube lanciasse un incantesimo che mettesse l'orbita lunare in collisione con quella terrestre, cosa accadrebbe?
Ecco la riflessione a cui mi ha spinto un amico, dopo aver smentito che la Luna si stia allontanando da noi.

Che dire, sarebbe anche questo uno scenario apocalittico e condurrebbe a conseguenze altrettanto disastrose: noi che per magia ci congiungiamo a dispetto di tutto e tutti, e nell'esatto istante in cui i nostri orizzonti si incontrano distruggiamo noi stessi e tutto quello che c'è intorno...
Come ne Le notti bianche, mi chiedo se un minuto intero di beatitudine basti a colmare tutta la vita di una persona.

Due corpi che si attraggono devono mantenere una certa distanza per non entrare in collisione, creare un delicato equilibrio di orbite. È faticoso, è doloroso, ma amare è sempre una ricchezza. Anche quando non sei ricambiato, anche quando l'altro non lo sa o non può, anche quando ti rende triste, l'amore infondo ti rende sempre anche felice.
Ti realizza più di quanto ci si possa realizzare per qualunque altra ragione, perché amare è il compimento della nostra natura.

E noi due? Orbite perfette, ecco cosa siamo e cosa dobbiamo rimanere.
Questa è la più grande prova d'amore, la dimostrazione del fatto che non amiamo solo noi stessi.

Analemma

Stiamo perdendo la Luna.
Lentamente, inesorabilmente, ogni anno si allontana da noi di pochi centimetri.
La sera la vedi ancora lì, maestosa protagonista del cielo, ma ormai sai che sei destinato a perderla e che a poco giova chiedersi quando, perché è già deciso.
Certo resta la sua malia, alla quale la promessa di sparire sembra, se possibile, aggiungere incanto.

È lo stesso struggente destino che tocca agli amori impossibili, a quegli amanti che debbono ingoiare il proprio sentimento col contagocce perché esso non si palesi in modo inopportuno.

Di tanto in tanto, con uno sciocco sorriso dipinto sulla faccia, rievocano i momenti trascorsi e intravedono presunte promesse di un futuro mai arrivato, da annegare puntualmente nella solita conclusione "non si può".
Indagano a fondo gli universi paralleli in cui quell'unione sarebbe ammessa, un po' come chiedersi cosa accadrebbe se l'acqua non fosse bagnata, e ogni volta, al termine di questo devastante ciclo di pensieri, un pezzettino di quell'amore viene eroso e l'analemma si modifica… Una piccola infinità destinata a dissolversi.

Ma allora, perché a me la Luna pare ancora tanto grande?

Quasi

Mi hai quasi amato.
Quando ti alzavi la mattina e mi facevi il caffè e sembravi quasi contento di prenderti cura di me.
Quando tornavi a casa la sera, e sembravi quasi stanco per qualche circostanza particolare.
Mi guardavi a volte, e ti piacevo quasi da ogni prospettiva, quasi sotto qualunque luce.
E quando volevo dichiararti i miei sentimenti, sembravi quasi pronto ad ascoltarmi, finché non ti assaliva il caldo, ti veniva la claustrofobia o notavi qualcosa da sistemare sulla parete alle mie spalle.
Non vorrei sbagliarmi, ma giurerei che qualche volta tu mi abbia quasi sussurrato all'orecchio ti amo, mentre mi mordevi il collo.

Quasi, ed è quel quasi il punto… Un quasi che per anni ha contato più di qualunque sicuramente, in nome del quale ho lottato e pianto e gridato. Un quasi che prendevo a pugni quando mi allenavo col saccone, che inseguivo quando andavo a correre. Un quasi che difendevo strenuamente contro ogni evidenza, nella convinzione che ne sarebbe germogliato un abbastanza.

In funzione di quel quasi ho vissuto da sola, aspettando invano la vita con te.
Sono passati quasi sette mesi e io sono quasi pronta a ricominciare. Quasi.

A mia zia

Mia zia, una donna abbastanza sola.
Un funerale con 15 persone, che a stento si arriva al minian, nessun settimo.
L'imbarazzo di spiegare ai colleghi il dispiacere per la morte di una zia acquisita e quasi centenaria... Quell'imbarazzo di quando parli con un interlocutore che i parenti lontani li vede solo a Natale, e per lo più malvolentieri.

Alla morte ognuno reagisce diversamente: c'è chi si dispera, chi spolvera la bara, chi si distrae esponendo fantasiose teorie complottiste. Ma nel tempietto... Nel tempietto del Verano tutti guardano in alto, come a cercare di intuire l'abilità del Musicista dalle fattezze del suo strumento. Come si dice: l'imbecille guarda il dito, e io fra gli imbecilli in prima fila.

E' che quando sei piccolo il cimitero non sai nemmeno cos'è, mentre crescendo i funerali si moltiplicano e inizi a farti due conti.
Ottimisticamente parlando, credi di avere tanto tempo per "lasciare tutto sistemato", per cancellare i video porno dal computer e scrivere delle belle lettere sincere alle persone che hai amato, mentre i fumatori sanno bene che il treno passa appena si accende la sigaretta e la cosa più probabile è che lasceremo anche noi qualche cosa a metà.

Eppure mi viene da chiedere: e se la metà che abbiamo fatto fosse abbastanza?
Se smettessimo di aspettare i funerali per alzare lo sguardo al cielo?
Se iniziassimo a pesare gli affetti, invece di contarli?
Fra le persone che ti hanno voluto bene ci sono anche io, e so che questo conta.

A mia zia Silvana, che riposi in pace.

Magma

Ancora,
sempre,
il richiamo di quello che sei veramente
senza esserlo davvero
ti sprofonda,
e si dimena
di fronte a chi ha saputo dare
una forma concreta
a questo abisso inespresso.

Si agita,
ribolle silenzioso.
Un magma incandescente
che appare inerte,
tuttalpiù stravagante all'occhio esterno...
Mentre l'artista parla,
grida al mondo.
Te ne stai
di fronte a lui
con la faccia di chi si riflette
nello specchio dei desideri di Harry Potter
e vede una finta,
dolorosa perfezione.

Quella è solo una proiezione.
Quella,
non sei tu.

La strada

Una volta, dopo aver preso un palo di dimensioni astronomiche da una stangona russa, un amico saggio e disperato tirò fuori dal freezer la vaschetta di Carte D'Or e chiosò "l'importante è aver amato".
Questa frase mi è tornata in mente diversi anni dopo, parlando con un altro amico di un argomento apparentemente del tutto diverso. Il secondo amico, un po' meno saggio del primo e decisamente più irruente, aveva intuito molto di me e tentava di convincermi a fare qualcosa di stupido senza preoccuparmi delle possibili conseguenze.
Alla fine mi aveva strappato la promessa di compiere una cazzata... Un proposito che, tralasciando che probabilmente lui aveva in mente un'orgia o un tatuaggio mentre io al massimo concepivo di andare a lavoro a piedi, aveva dentro me la stessa eco del ti amo di una storia estiva a fine stagione: emozionante perché sai che è per finta.
Non poteva vincere con me, persino il mio taglio di capelli era un compromesso fra il lungo e il corto, l'unico modo che avevo trovato per esprimere pacatamente il conflitto che mi dilaniava fra il percorrere la strada convenzionale e il perdermi nello sterminato campo di granoturco circostante.
Camminavo poco fuori dal sentiero costeggiandolo, come che questo facesse di me una persona coraggiosa... A volte mi allontanavo di qualche passo, ma col cazzo che lo perdevo di vista.
L'importante è aver amato, aveva detto lui, l'importante è aver scelto qualcuno avergli dedicato tutti noi stessi, anche se poi è finita. Quindi in fin dei conti l'importante è aver scelto... Esattamente quello che non stavo facendo io.
Il sentiero non è una strada, il sentiero è La strada.
Sul sentiero si sta in compagnia e si può cantare, ma il canto delle spighe intorno è tutt'altra storia.
Ogni giorno le ascolto estasiata, vorrei seguirle.
Ogni giorno desidero perdermi.
Non so scegliere, mi ripeto, non so agire d'impulso...
Quella sera andai a letto senza lavarmi i denti.

Gino

Alto, magro, con le guance accese e il gilè di maglia colorato.
Gino, questo il suo nome, siede al tavolo dieci solo per modo di dire, per lo più si aggira languido nei paraggi del bancone del bar come un gatto che aspetti gli avanzi della cena.

Gesticola mollemente, con espressione voluttuosa, e senza chiedere niente a nessuno ha preso dalla cantinetta una bottiglia di Cabernet Sauvignon di cui elogia annata e provenienza con lo stesso tono con cui uno direbbe alla fidanzata “tesoro, che belle tette che hai”.

Quando è ora dell’ordinazione torna a sedersi con la massima calma, accavalla le gambe e poi bisbiglia qualcosa di indecifrabile.
La cameriera, che naturalmente non ha capito niente, si china appena in avanti e chiede di ripetere. “Un ia...to. fa...lini sssssc..i..iti” sibila lui, ancora più sommessamente.
La cosa sembra dargli gusto, ma la ragazza inizia a spazientirsi e al quarto tentativo, a malincuore, lui è costretto a lasciarsi intendere: con appena un filo di voce scandisce “Un piatto di fagiolini sconditi cara e...” - breve pausa - “...Mi piacerebbe fotografarti nuda”.
Lascia sempre interdetti quel suo sorrisetto unto alla Dorian Gray, quello sguardo torbido che ostenta arrapamento verso qualsiasi essere animato o inanimato nei paraggi.
Lei comunque, dico la cameriera, ormai ci è abituata: finge di non aver sentito la seconda parte dell’ordinazione e si allontana.

Dopo pochi minuti arriva il piatto, questa volta a servirlo è un ragazzo.
Con fare asettico, quasi a volersi proteggere da un pericoloso contagio, il cameriere poggia la pietanza sul tavolo e subito ritrae la mano. “Stasera vado al cinema” gli dice Gino prima che quello si sia potuto allontanare “Vuoi venire?”. La proposta, il modo in cui modula la voce, hanno qualcosa di così eroticamente inopportuno che il ragazzo ammutisce qualche secondo. Gino intende la cosa come un’esitazione e decide di aggiungere un incentivo: “c’è anche una ragazza...”.

Completamento automatico

Ero molto incazzata.
Il motivo non è così importante, del resto io di rado mi incazzo con qualcuno ma spesso riesco comunque ad avercela col mondo intero in modo rassegnato.
Mentre rientravo verso casa, rimuginavo su come Ezra mi avesse di nuovo fregata bilanciando sapientemente ironia e aggressività... Non sopporto i manipolativi che evitano le discussioni e pretendono di ottenere quello che vogliono senza esporsi, senza mai entrare in conflitto.

Pontificavo nella mia testa un discorso retorico e altisonante che avevo messo a punto lungo tutta la strada del ritorno, uno di quei tanti discorsi che sono destinati a restare sfoghi interiori, perché già in partenza li concepisci con un tono che non ti appartiene.
Ero quasi arrivata alla parte in cui lui, messo alle strette, mi chiede scusa, quando la mia attenzione è stata catturata da una stranezza: i lampioni al ciglio della strada erano tutti accesi da un solo lato.
Un braccio era acceso e l’altro spento.
Avranno tagliato l'illuminazione, ho pensato. In questi tempi di crisi, appena si vede in giro una cosa che non funziona si attribuisce la responsabilità alla mancanza di fondi.

Solo alla fine della strada mi è balenata una domanda che non so come non mi ero posta fino a quel momento: ma siamo proprio sicuri che siano lampioni doppi?
La risposta era no.
Erano tutti dei semplici lampioni a un solo braccio, ma non vedendone una parte io avevo dato per scontato che fosse spenta, non che non ci fosse.

Che strani tiri che gioca la mente. A questo punto avrei dovuto sentirmi almeno un po’ stupida, e invece avevo cominciato a riflettere sulle mie attitudini "speciali" e su quante idee incredibilmente creative avrei potuto dare alla luce. Ho una propensione innata al pensiero laterale, mi ripetevo, vedo la parte mancante delle cose, quella meno scontata.
E magari avevo ragione, ma il mio orecchio assoluto e la mia iperosmia già contribuivano a sufficenza a farmi sembrare una schizzata ora in preda ad allucinazioni olfattive, ora autrice di parallelismi musicali troppo audaci… Adesso che cominciavo anche a vedere cose che non esistono, non mi restava che iscrivermi ai provini di Medium.

Chissà, ho iniziato a chiedermi, quante altre volte commetto lo stesso errore.
Se aggiungo bracci ai lampioni, chissà quante spiegazioni invento e quante intenzioni attribuisco arbitrariamente alle persone.
Vedere, o meglio non vedere, il pezzo mancante dei lumi, era stata un’umiliante epifania, un po’ come quando cerchi per tutto il giorno il passaporto e poi, alla centesima volta che apri lo stesso cassetto (cioè quello dove dovrebbe stare e inspiegabilmente non c’è), improvvisamente ce lo trovi dentro. O come quando cerchi il parmigiano in frigo e non lo trovi, perché stai cercando la busta che compri di solito mentre stavolta hai cambiato marca.

Insomma il problema è che uno si aspetta le stesse cose di sempre, dagli oggetti, dalle persone e persino da se stesso... Ma le cose non sono mai uguali, tutto cambia in continuazione.
Il vero motivo per cui ci arrabbiamo, ci offendiamo o proviamo qualsiasi altra sorta di sentimento negativo, è che tendiamo a generalizzare e a pensare in modo assoluto.
Ci ripetiamo frasi come “si comporta sempre in questo modo” o “ogni volta commetto lo stesso sbaglio”... E’ una trappola, ma è anche la forma naturale del nostro pensiero.

Quindi dobbiamo essere contenti quando la realtà ci dà una scossa ricordandoci che non tutti i lampioni hanno due bracci, e cogliere l’occasione per rimettere in discussione le nostre convinzioni più salde, fosse anche solo per cinque minuti.

Ave!

Non è che sono disoccupato, è che non lavoro. La gente dovrebbe pesare meglio le parole e piuttosto considerare le persone come me dei “diversamente occupati”.
Mia madre si lamenta continuamente del mio stile di vita, così ogni giorno mi serve la colazione su tovagliette di giornale diverse. Stamattina, bello in evidenza sotto il cappuccino, c’era il seguente annuncio:

Pizza&Sorrisi, azienda leader nella ristorazione e da sempre attenta alla formazione delle proprie risorse umane, offre stage nella mansione di ‘addetto alla pulizia delle stoviglie’, finalizzato all’inserimento nell’organico aziendale.
La durata prevista per il percorso formativo è di sei mesi.
L’offerta si rivolge a candidati di età compresa fra i 22 e i 25 anni, di ottimo standing, che abbiano conseguito laurea di secondo livello in Ingegneria Informatica o titoli equivalenti.
La conoscenza certificata della lingua inglese, tedesca e francese costituirà titolo preferenziale.
Completano il profilo entusiasmo per il settore e flessibilità di orari.
Previsto rimborso spese di 250 euro/mese. 
Sede: Roma.

Ci sono esperienze da cui non si può retrocedere, e fra queste rientra purtroppo l’alfabetizzazione. Ti abitui a leggere tutto, ogni cazzo di cartellone pubblicitario, ogni sorta di posti-it di scambisti nei bagni dei ristoranti, perché nessuno ti ha chiesto, prima di insegnartelo, se davvero sapevi cosa stavi imparando e se ne eri convinto.
Ecco perché non ho potuto schivare la trappola che mia madre mi aveva teso.

“Il colloquio è andato male” la informo rientrando.
“Perché?”
“Volevano il nome di tutti gli imperatori romani in ordine cronologico, e io non me li ricordavo…”
Era una pizzeria semplice (o come direbbe un blogger di questa generazione ‘rustica’), di quelle coi menù ancora in Comic Sans, i prezzi corretti a penna e con un generico “Pizzeria” appiccicato sulla porta… Chi si aspettava una simile selezione per un posto da lavapiatti?
“Mi dispiace ragazzo” aveva concluso l’esaminatore-responsabile-di-sala “ma il principale è un appassionato di storia e non potrebbe mai soprassedere su una simile lacuna”.
“Ave” era stata la mia risposta secca, e me n’ero uscito. Il “te rotto il cazzo!” me l’ero tenuto in tasca, mi sembrava poco elegante e storicamente fin troppo abusato.

L’attesa del piacere

Nella mia vita ho sempre conservato per dopo le cose più belle.
Ho sempre parsimoniosamente protetto e risparmiato ciò che credevo mi sarei goduta a tempo debito.

Ma le domeniche piovose mi hanno smentito senza appello: quando ti svegli per mettere ordine e ti accorgi che nella trousse che hai gelosamente custodito intatta, ci sono ombretti di un fuxia improponibile alla tua età. Quando apri la dispensa e i cioccolatini del Natale scorso si sono guastati e il vestito da sera appeso nell’armadio non ti entra più.

Eppure da quelle domeniche non ho imparato molto, se ancora oggi guardo le cose più belle che ho con la stessa aria nostalgica di chi l’ha già perse senza averle mai usate.
L’attesa del piacere è essa stessa il piacere? Forse per chi ancora crede che il piacere arriverà, ma per i codardi come me l’attesa non è che un’amara constatazione d'impotenza.

La verità, amore, è che la mia dichiarazione è come una vecchia monetina: quando sono sola la rimiro compiaciuta e non vedo l'ora di mostrartela, appena ti avvicini la nascondo in tasca.
E mentre ti guardo, la stringo nella mano come se stessi per offrirti un pezzo raro e mi sento ricchissima. Ma se provo a porgertela, sono sopraffatta dal terrore della povertà che conoscerei se tu guardando nelle mie mani vedessi solo una vecchia moneta.

Così alla fine mi ritraggo e scelgo di essere povera piuttosto che scoprire quanto vale per te.

Statua di sale

Una famigliola fugge dall’ira divina: marito, moglie e figlie.
Mentre il Capo rimette nella custodia i peccatori sodomiti e le loro capanne, fra le quali accidentalmente rientra quella della famiglia in questione, la signora non resiste alla tentazione di dare un ultimo sguardo alla sua casa: si volta a dispetto del divieto divino, e viene tramutata in una statua di sale.

Quella donna è una scrittrice, potrei essere io.
E’ qualcuno che si volta a contemplare il passato e a cristallizzarlo in parole, piuttosto che vivere il presente.
All'atto pratico lei può sembrare ferma come una statua, infruttuosa come un campo di sale: è una che vive in una casa vuota perché una casa vuota può ancora contenere tutto, può ancora essere in qualsiasi modo.
Come Michelangelo siede e indaga ogni evento, ogni sentimento, come se fosse un blocco di marmo in cui scolpire la propria visione.

Ecco perché, se leggendo i miei scritti vi chiedete voyeuristicamente cosa sia vero e cosa no e da dove vengano le storie, siete fuori strada.
Non c’è presente in quello che scrivo, solo universi paralleli.
Non vi serve avere a mente chi sono per comprendere ciò che scrivo, sarà ciò che scrivo a dirvi chi sono veramente.

In una buona storia, le righe salienti sono quelle fra l’una e l’altra.

Rebibbia

Una donna con uno strano fazzoletto in testa familiarizza col figlio della signora seduta accanto a lei.
La pantomima è già a uno stadio avanzato, nel senso che i convenevoli su dati anagrafici quali nome ed età sono stati fatti, e i complimenti pure. La signora si è persino risparmiata il tradizionale “Vuoi più bene a mamma o a papà?” (la cui recente versione edulcorata sembra essere “E’ più bella la mamma o il papà?”), e si è buttata invece sul più originale “Che vuoi fare da grande?”.

La domanda, particolarmente insidiosa, desta molta perplessità: che bello quando i bambini si guardano intorno in cerca di una risposta nuova perché ancora non hanno imparato a collezionare idee pronte da smerciare sul banco dei secondo-me.
Ma la signora è dominata dal compiacimento tutto autoreferenziale di chi cerca considerazione ad ogni costo, e non coglie questa bellezza.

D’altro canto se anche sapesse cosa sta suggerendo con la sua domanda, lo stesso non si guarderebbe dal parlare. E non mi riferisco tanto alla triste constatazione di dover ciascuno trovarsi un mestiere, quanto alla subdola induzione dell’idea che il lavoro sia il traguardo.
Tutti chiedono ai bambini cosa vogliono fare da grandi, e nessuno pensa che si dice “Che cosa vuoi fare?”, ma si intende “Quale fra i possibili lavori?”. Che parlando di volere si qualifica a prescindere il lavoro come attività desiderabile. Che si usa il verbo fare al posto di lavorare, come consueta espressione di una cultura in cui per capire chi abbiamo davanti gli chiediamo cosa fa, e in genere ci riferiamo al suo lavoro. C’è del marcio persino in quel da grande, che sottintende come definizione principale di “essere grande” quella di “essere in grado di lavorare”.

Il bambino sta lì che si adopera per trovare una risposta nei film, nell’esempio dei parenti, nei cartoni animati, e preconfeziona la sua soluzione per le prossime tremila volte in cui la domanda gli verrà posta di nuovo: “Io da grande farò le case”.

L’arrivo del treno lo sovrasta, prima ancora che se ne possa udire il fragore, con la sua sola presenza all’orizzonte. Come in un flash mob, sulla banchina i corpi sembrano improvvisamente rianimarsi da un sonno contemplativo che li inchiodava alla spallina del reggiseno della turista francese, al titolo del libro di quello di fronte, a un dettaglio sul muro.

Solo sul bambino, ancora immune alla frenesia cittadina, il treno non ha effetti. Ma quando domanda alla signora “e tu che lavoro fai?”, lei è già lontana.

Igiene sentimentale

Notte, sete, frigo. Completa la sequenza: bicchiere sporco sul tavolo.
Dal basso della mia ironia comatosa da quasi-albori di un giorno fotocopiato in serie da quelli precedenti, mi sento di dire che non entrerò mai a ingegneria. Sarei in grado di passare il test, certo, se solo arrivassi a presentarmi. Ma la costanza richiede una disciplina che non mi appartiene e che cozza troppo con l'esigenza di continuare a mettere in discussione ogni cosa.
Questo è un mondo in cui si raccolgono i punti, si fanno le carte fedeltà, si chiama prima chi ha lo stesso gestore telefonico... Si prende la laurea. Le gratificazioni passano da impegni a lungo termine, mentre io cambio benzinaio ogni finesettimana ed è già tanto se arrivo a pagina 3 di una rivista.

I quotidiani poi, sono un lusso assolutamente fuori dalla mia portata, un po’ come il parmigiano. Quella è roba per chi cucina tutti i giorni: la compri e va consumata subito, prima che scade. Anzi, per essere precisi i quotidiani quando li apri sono già belli che scaduti e ti risucchiano in quel meccanismo perverso in cui l'unico modo per spendere quanto hai appreso leggendoli è rimediare un altro fesso, che ancora non ha comprato il giornale, e sciorinargli cotanta saggezza finché sei in vantaggio di contenuti. Ma anche no. Bisogna prendere atto che, se nello scatto sono campionessa, nella maratona sono una sega.
Ingoio il rospo insieme a questo Chanteclaire all'ananas del discount, scaduto la settimana scorsa, e mi affretto a tornare a letto contando già le ore di sonno che mi restano. Che mi restano. Le ore di sonno che.. Che mi sa che sto crollando.
Fosse mercoledì o, che so, giovedì.. Si potrebbe lasciare tutto come sta fino a domani. E invece oggi è giorno delle pulizie, la cucina ha lo stesso sguardo colpevolizzante di mia madre e “domani” non esiste. Quindi rimuovo dal tavolo senza troppe storie il cadavere di tetrapak incrostato, mossa da una sorta di riverenza che il candore dei ripiani mi impone.

Ma perché finiamo sempre per confondere gli oggetti con ciò che rappresentano e i luoghi con gli eventi di cui sono stati teatro?
Ogni volta che mi affaccio alla finestra mi sorprendo di come ancora, a distanza di mesi, nessuno osi parcheggiare sui resti dell'auto bruciata, appellandosi alla stessa assennatezza che gli suggerisce di non scoreggiare in chiesa. E il fatto che nemmeno un parcheggio riesca a redimersi, abbatte la mia speranza di rimettere a posto le cose. Come posso credere che lei si affiderà ancora a me? Altro che pulizie: ho trasformato il nostro rapporto in una cucina in cui si è sorpreso un topo, e a poco serve continuare a disinfettarne meticolosamente ogni anfratto.
Che poi magari invece esiste una possibilità di riscatto, come per gli orecchini a cui tenevo tanto che mi caddero sul pavimento nel bagno di un autogrill: li lasciai lì, convinta che tanto non li avrei mai più indossati, e adesso mi tortura il dubbio che, chissà, se li avessi raccolti e ripuliti, li porterei con disinvoltura.
Così (ecco un altro motivo per cui non diventerò ingegnere) anche se la ragione mi ripete che ho zero speranze, come simbolica presa di posizione parcheggio ogni sera la macchina nell'esatto punto in cui quella dei vicini ha preso fuoco.

Quanto era tutto più facile da bambini, quando per cancellare i torti bastava una stretta di mignolo e in vacanza si assaggiava l'acqua di mare.
Gli adulti invece non dimenticano, vedono un brulicare di germi ovunque.
Negli anni dell'Amuchina compulsiva, nessuno si rende più conto che il problema, alla fine, non è la presenza attuale di batteri, ma il fantasma delle infestazioni passate. E chiedersi in un rapporto se e quanto qualcosa sia sbagliato, si trasforma presto in una trappola viziosa che ci distoglie dalla vera domanda: possiamo lasciar correre e prenderci di nuovo per mano, oppure non c’è sterilizzazione che tenga?

Il chiosco delle caramelle

Direi che per farsi rimorchiare due è un pessimo numero.
Pessimo, perché vuol dire che anche gli avventori saranno in due, e in genere i bei ragazzi non cacciano in coppia: se si viene abbordate da due tizi, la storia di qualsiasi donna con uno straccio di vita sociale insegna che nella migliore (e più rara) delle ipotesi uno è carino e l’altro, meno equipaggiato e decisamente macilento, si limita a seguire come un'ombra il primo nella speranza di agganciarne lo scarto. Così ci si ritrova in quelle situazioni scomode in cui o si tocca in sorte come giacenza di magazzino allo sfigato, oppure si è mira di quello carino ma anche dell'avversione dell’amica-ripiego.

L'operazione di casting è inoltre intralciata dal fatto che non abbiamo elementi per scegliere se non l'approccio stesso, ragione per cui considero un requisito base l'originalità. Questo tizio per esempio vuole farci credere che alle undici di sera a piazza Navona sta distribuendo i volantini di un supermercato del Torrino...
Mi correggo: il volantino.

Gli lascio giusto il tempo di dire che si chiama Antonio, poi accendo il filtro antispam: posa di tre quarti, mano che manda indietro i capelli, e una risposta alla domanda “mi dici il tuo nome?” svogliata e distratta... Viva la prossemica: l'ho messo a disagio.
Di solito a questo punto lui (quello dei due che parla per entrambi, l’altro è muto per definizione) capisce che non ha i diritti d'amministratore e che è il caso di temporeggiare: si lancia quindi in uno zapping selvaggio di domande-del-più-e-del-meno di cui neanche ascolta le risposte e intanto tenta di togliere d'impaccio l’amico caligynefobo adottando un inquietante pluralia maiestatis ai limiti della schizofrenia.
Posso dire qualsiasi cosa: che ascolto i Bee Hive, che colleziono insetti morti, che odio i negri, la risposta è e sarà sempre la stessa “Anche noi” o “Sìsì, noi pure” o altre variazioni su tema, tutte sottotitolate “bastachemmeladai”.

Il fatto è che quando ti metti a competere sul piano della chiacchiera da bar, la tue qualità valgono poco e niente. Così i ragazzi al rimorchio in genere si ritrovano come bambini golosi e con un solo euro in tasca davanti al chiosco dei dolciumi: sono costretti dalle circostanze a indirizzare l'attenzione verso l'unico tipo di caramelle che possono permettersi e, siccome i soldi non bastano lo stesso, devono anche persuadere il negoziante che la scelta sia ricaduta proprio quel tipo perché è il più buono.
Sta alle ragazze, consapevoli di essere semplicemente le caramelle più abbordabili, decidere di volta in volta se ignorare i sottintesi e fare il bottegaio dal cuore tenero, oppure declinare le lodi e scacciare i bambini con un gesto di stizza.

Quanto a me e alla mia amica li seguiamo, un po’ per noia, un po’ per gioco, un po’ per il miraggio di un cocktail gratis. Ma abbiamo fatto male i conti perché stiamo dimenticando che i ragazzi parlano una lingua semplice in cui “mi accompagni a bere qualcosa?” significa davvero “mi accompagni a bere qualcosa?”.
Me ne rendo conto troppo tardi, cinque minuti dopo, quando lui sorseggia un vodka lemon con l’aria persa di chi è intento a contare le mosche sul soffitto. E mentre ancora sto cercando di capire se la situazione surreale in cui mi sono cacciata sia dipesa più dalla sua zotichezza o dalla mia ingenuità, lui abbassa di colpo lo sguardo e adduce un mio improbabile interessamento come sola causa possibile del fatto che lo sto fissando. Non dice niente, ma il suo ghigno di soddisfazione grida "Tana!" e nel giro di mezzo secondo me lo ritrovo appeso al collo come un vampiro agonizzante.

La fine del mondo

Fra poco finirà il mondo, dicono.
Chi lo dice? I maya, o qualche archeologo che ne fa le veci.
Tutto iniziò un po' di anni fa, quando un gruppo di bimbi maya annoiati si inventò questo nuovo gioco di contare i giorni, uno a testa: cominciarono dall'11 agosto 3113 a.C. ed andarono avanti, un encomio alla costanza, fino al 21 dicembre 2012 d.C... Poi si stufarono e passarono al nascondino.

La conclusione che se ne trae è evidente: il 21 dicembre p.v. il mondo finirà.
Di venerdì, ovviamente, perché poi arriva il weekend e dio si riposa: avrà altro a cui pensare, lui. La fregatura in caso la prendiamo noi, che se proprio dobbiamo morire anzitempo gradiremmo almeno farla finita di lunedì mattina: ti suona la sveglia e pensi "Nooooo! Che palle inizia un'altra settimana...", premi il tasto snooze e non ti svegli più.

Molti pensano che siano tutte cazzate, ma c'è anche chi ne è convinto.
In discoteca un tizio con la faccia da topo e occhiali spessi come il vetro blindato della banca mi ha addirittura ammonito con una certa sufficienza "se non ci credi fai male: neanche i dinosauri ci credevano, eppure...". Chissà magari ha ragione. Magari il grande T-rex l'aveva letto nei fondi del brodo primordiale ma i suoi coevi ci si erano fatti una risata.

Ma se anche questa psicosi dei ratti da discoteca avesse fondamento, cosa potremmo trarne?
Siamo e restiamo esseri recidivi. Inutile ripetersi che ci butteremo col paracadute o avremo esperienze sessuali stravaganti il giorno prima dell'imminente fine.
E purtroppo non credo che diremo tutto quello che non abbiamo confessato finora.
Quando sarò lì davanti alla persona che amo e temporeggerò per trovare la calma mentre lui mi incalza con lo sguardo impaziente di chi non riesce a far passare il filo dalla cruna...
Dirò forse "Ti amo"? No, non lo dirò neanche stavolta. Lo direi, forse, se vedessi un meteorite a pochi metri di distanza. Forse. Perché in fondo già da piccola avevo capito che i compiti delle vacanze si fanno il giorno prima dell'inizio di scuola, e di solito si fa solo la prima pagina del libro.

Probabilmente venerdì non ci sarà nessun cataclisma. Nessun terremoto, niente meteoriti e nemmeno un alieno viola alto come un grattacielo che sputa fiamme sui civili.
Ma se davvero potessimo predire con esattezza la fine del mondo, allora quella fine non sarebbe il giorno previsto: sarebbe il giorno prima.
Sarebbe quel fatidico giovedì in cui ciascuno chiude i propri conti in sospeso...

Facebook Facebook delle mie brame

C'era una volta una neonata così esangue e malandata che fu chiamata Biancaneve.
Sua madre era morta partorendola e il padre, rimasto vedovo, si era risposato con una bellissima soubrette televisiva.
Non c'era mattina che la nuova regina non si collegasse su Facebook per accertarsi di avere più "mi piace" di tutte le altre donne del regno, e per diversi anni detenne il primato, finché un giorno che la sua figliastra Biancaneve diventò più popolare di lei [...]

Quando cominciò a progettare Facebook, Mark Zuckerberg doveva avere in mente una versione simile della storia. O quantomeno aveva capito che, dall'ottocentesco racconto dei fratelli Grimm all'età contemporanea, il bisogno di consensi era rimasto una costante della psicologia umana.

Basta guardarsi intorno per averne la conferma: c'è chi con una scusa armeggia col nuovo telefonino per farlo notare all'interlocutore, chi dimentica sistematicamente di togliere la divisa, chi chiedendo un giorno di ferie dà più spiegazioni del necessario perché in realtà vuole comunicare fra le righe cosa farà durante il ponte.

Facebook, contemporaneo specchio delle nostre brame, risponde perfettamente a questa esigenza perché fa dell'esibizionismo il canale fondamentale dell'interazione: comunichiamo con i nostri amici, è vero, ma quegli amici sono un pubblico e quello comunicazioni sono un'espressione delle nostre preferenze. Ecco la logica del sistema.

La liceità del nostro protagonismo è anche supportata dalla natura comunitaria del social network. Ricordiamoci che nella sostanza siamo un gruppo di utenti accomunati dalla stessa modalità di interazione, e quindi nessuno condanna il comportamento degli altri perché significherebbe implicitamente esprimere un giudizio negativo anche sul proprio.

Insomma ci si concede anche il vezzo di dissimulare.
Verrebbe da chiedersi: si poteva creare un sistema più narcisistico di così?

"Sì" sarebbe stata la risposta della matrigna, che avvicinandosi ormai ai quaranta un giorno dalla webcam aveva scoperto sul suo viso una ruga.
E le sembrava sconveniente mostrare al regno intero un simile difetto, tanto che prima di aggiornare l’immagine del profilo gli diede una bella ritoccata con Photoshop.

Sì, comunque, fu anche la risposta di Zuckerberg, quando mise a punto il concetto di "bacheca".
Sulla bacheca infatti componiamo ed esponiamo la nostra immagine, e chiaramente ciascuno si espone al meglio: chi modifica il proprio nome, chi seleziona accuratamente e ritocca le foto, chi pensa con calma a cosa scrivere nello status, magari controllando l'esattezza di una citazione.
Un bel giochetto, di cui però ci si stanca presto.

Col passare degli anni persino alla matrigna cominciava a venire a noia quel continuo “fare la vetrina”. Ogni tanto, quando la mattina apriva la propria pagina e le si parava davanti quel "A cosa stai pensando?", imprecava contro Zuckerberg "A che vuoi che stia pensando idiota?!? Alle stesse minchiate di ieri!".

Quanto al suo unico album di foto, quello del profilo, sembrava una lunga raccolta di still life votata al racconto degli effetti della sua inesorabile menopausa.

Fu in quel periodo che la figliastra Biancaneve, divenuta nel frattempo una teenager scatenata, fu sommersa da una valanga di "mi piace" per aver postato le foto della festa di inaugurazione della miniera dei sette nani.

E probabilmente osservando fenomeni simili a Zuckerberg venne l'illuminazione decisiva, l'accorgimento che ci avrebbe salvato dalla noia: per quanto potesse essere gratificante costruire e condividere una immagine migliorativa di noi, per continuare a darci stimoli questa attività doveva legarsi strettamente alla nostra realtà quotidiana.
La "bacheca" si trasformò così in un "diario", il cui contenuto (post, foto, video ecc) era ben scandito in intervalli temporali. E gli utenti di conseguenza cominciarono a percepire la propria pagina non più come un ritratto statico di sé da perfezionare, ma come un racconto frenetico di tutte le attività svolte da aggiornare giorno per giorno.

In tutto il regno migliaia di persone cominciavano a seguire con interesse il diario di Biancaneve, e tutti provavano invidia e ammirazione per l'innumerevole quantità di iniziative a cui la giovane principessa prendeva parte: dalla fondazione di una ONLUS a sostegno degli amici affetti da nanismo alle lezioni di equitazione con il principe.
Molti presero anche ad imitarla, e come lei a condividere cosa avessero mangiato per pranzo o quale fosse il colore di cui avevano appena tinteggiato la propria stanza.

Ma il passaggio al "diario" non fu solo una manovra decisiva dal punto di vista del marketing. L'introduzione di una storicità ha anche rivoluzionato il concetto stesso di social network perché, per quanto possa sembrare un paradosso, da allora Facebook ha assunto la configurazione di uno strumento virtuale che non aliena affatto dalla realtà ma al contrario contribuisce ad immergerci maggiormente in essa.

Facilmente per chi usa Facebook il bisogno di un pubblico di amici e di materiale da postare si traduce nell'esigenza pratica di conoscere gente e fare esperienze nuove.
E se da un lato Facebook è diventato un potente propulsore dell'azione reale (o quantomeno del bisogno), dall’altro questo social network influenza ogni giorno la nostra realtà anche semplicemente attraverso l'immagine che ne restituisce: quante volte ciò che viene messo online condiziona le nostre azioni, ora perché altera l'opinione che abbiamo gli uni degli altri, ora perché smaschera una bugia, ora perché ci ricorda qualcosa o qualcuno?
Magari, conoscendo Facebook, i Grimm avrebbero scritto un epilogo del tipo:
Scartata dai provini di Miss Italia per via dell'età troppo avanzata, la regina era comunque decisa a percorrere qualsiasi strada per ottenere più consensi della figliastra.
Per riuscire nel suo intento si fece fotografare allo stadio con La Mela e postò lo scatto sul proprio diario: manco a dirlo, la sua popolarità schizzò alle stelle.
Erano le sei di pomeriggio. Biancaneve, in barba alle raccomandazioni del dietologo, stava fagocitando schifezze insieme ai nani e vedendo la notifica trasalì al punto che un popcorn le andò di traverso.
Stramazzò a terra.
Si riprese dalla depressione solo diversi mesi dopo quando, concessasi a
Milito, anche detto "el principe", ottenne in cambio la sua amicizia su Facebook. Allora riuscì nuovamente a svettare la classifica delle più note del reame....
E tutti vissero tutti felici e connessi.

La generazione del precariato

Vai a una festa e conosci uno, un tipo interessante diciamo.
L’interesse è reciproco, cominciate a frequentarvi e a un certo punto vi baciate.
A quel punto lui mette le mani avanti “Guarda te lo dico subito: tu mi interessi, ma non mi voglio impegnare. Frequentiamoci e vediamo cosa succede…”.

E tu, che molto probabilmente la pensi allo stesso modo, non ti scomponi affatto. Tutti noi troviamo naturale che il precariato si sia esteso ben oltre i confini dell'ambito lavorativo ed abbia investito anche la sfera affettiva, così che alla fine non ci vuole molto a cogliere nella frase del ragazzo di turno l’eco di quella pronunciata dal capo durante il nostro ultimo colloquio di lavoro "Te lo diciamo subito: noi non assumiamo. In caso facciamo un contratto a progetto e vediamo come va..".

Ma il fatto che oggi come oggi avere una storia d'amore seria sia considerato compromettente alla stregua dell'assumere personale a tempo indeterminato, non è che una delle espressioni di una cultura di cui i sentimenti sono il nuovo tabù. Di una generazione che ha perso ogni inibizione circa il sesso ma è terrorizzata dall'amore.
Il sentimento è ciò che vorremmo ma che ci sembra di non poter volere.
E allora spiamo catarticamente quello degli altri nella finzione televisiva.
Mentre nella vita reale creiamo il mito del soggetto completamente libero dai legami sentimentali: un nuovo sex-symbol che incarna la sicurezza, da contrapporre a chi è felicemente fidanzato da anni per poterlo schifare.
Siamo un pubblico televisivo ormai insensibile alle scene fra le lenzuola, mentre ciò che davvero fa presa su di noi è la spettacolarizzazione estrema e patetica del sentimento, tanto che oserei affermare che ci troviamo di fronte ad una nuova forma di pornografia: quella di "C'è posta per te" e del "Grande Fratello".

In che misura e in che modo il precariato lavorativo sta influendo sulla nostra concezione dei rapporti interpersonali? Certamente la quasi impossibilità di costruirsi una posizione economica e quindi di fare a progetti a lungo termine, esercita un potente condizionamento culturale.

Viviamo per il presente, siamo quelli che comprano a rate e si indebitano per avere tutto subito, perché del domani non ci importa. Quelli che, quando escono film ricchi solo di attori famosi ed effetti speciali, garantiscono il record di incassi, perché abbiamo perso interesse per i contenuti.
Preferiamo non guardare avanti perché vogliamo sentirci liberi di tornare indietro, e così diventiamo sempre più schiavi della nostra libertà.
Abbracciamo tutto e non stringiamo niente, ma non ci importa.