Rebibbia

Una donna con uno strano fazzoletto in testa familiarizza col figlio della signora seduta accanto a lei.
La pantomima è già a uno stadio avanzato, nel senso che i convenevoli su dati anagrafici quali nome ed età sono stati fatti, e i complimenti pure. La signora si è persino risparmiata il tradizionale “Vuoi più bene a mamma o a papà?” (la cui recente versione edulcorata sembra essere “E’ più bella la mamma o il papà?”), e si è buttata invece sul più originale “Che vuoi fare da grande?”.

La domanda, particolarmente insidiosa, desta molta perplessità: che bello quando i bambini si guardano intorno in cerca di una risposta nuova perché ancora non hanno imparato a collezionare idee pronte da smerciare sul banco dei secondo-me.
Ma la signora è dominata dal compiacimento tutto autoreferenziale di chi cerca considerazione ad ogni costo, e non coglie questa bellezza.

D’altro canto se anche sapesse cosa sta suggerendo con la sua domanda, lo stesso non si guarderebbe dal parlare. E non mi riferisco tanto alla triste constatazione di dover ciascuno trovarsi un mestiere, quanto alla subdola induzione dell’idea che il lavoro sia il traguardo.
Tutti chiedono ai bambini cosa vogliono fare da grandi, e nessuno pensa che si dice “Che cosa vuoi fare?”, ma si intende “Quale fra i possibili lavori?”. Che parlando di volere si qualifica a prescindere il lavoro come attività desiderabile. Che si usa il verbo fare al posto di lavorare, come consueta espressione di una cultura in cui per capire chi abbiamo davanti gli chiediamo cosa fa, e in genere ci riferiamo al suo lavoro. C’è del marcio persino in quel da grande, che sottintende come definizione principale di “essere grande” quella di “essere in grado di lavorare”.

Il bambino sta lì che si adopera per trovare una risposta nei film, nell’esempio dei parenti, nei cartoni animati, e preconfeziona la sua soluzione per le prossime tremila volte in cui la domanda gli verrà posta di nuovo: “Io da grande farò le case”.

L’arrivo del treno lo sovrasta, prima ancora che se ne possa udire il fragore, con la sua sola presenza all’orizzonte. Come in un flash mob, sulla banchina i corpi sembrano improvvisamente rianimarsi da un sonno contemplativo che li inchiodava alla spallina del reggiseno della turista francese, al titolo del libro di quello di fronte, a un dettaglio sul muro.

Solo sul bambino, ancora immune alla frenesia cittadina, il treno non ha effetti. Ma quando domanda alla signora “e tu che lavoro fai?”, lei è già lontana.

2 commenti:

  1. Bello bello bello, ma hai dimenticato di citarmi nelle fonti, mi toccherà denunciarti

    RispondiElimina

Cosa ne pensi?